Qual è quella macchina progettata per funzionare per appena quattro anni e che invece, dopo 45 anni di funzionamento ininterrotto, è ancora in perfetta forma e, con un po’ di fortuna, potrebbe raggiungere e superare i 50, l’età della maturità?
Qual è quel computer che con appena 69 kilobyte di memoria riesce a far funzionare un mare di strumenti scientifici e ad inviare i dati raccolti attraverso un flebile collegamento radio di appena 23 W di potenza, più o quello che serve per illuminare la cucina con un paio di lampadine a LED?
Qual è quel nastro magnetico che riesce a funzionare senza rompersi per 45 anni in condizioni di freddo e di vuoto estremo?
Tutti questi oggetti fanno parte di una delle maggiori sfide scientifiche e tecnologiche che la mente umana abbia partorito, le sonde Voyager 1 e Voyager 2, lanciate dalla NASA nel lontano 1977 e che oggi, dopo aver visitato in sequenza Giove, Saturno, Urano e Nettuno, viaggiano nello spazio interstellare nei pressi del confine dell’eliosfera, quella zona dello spazio dove il vento solare perde forza fino a scomparire.
La storia di Voyager 1 e 2 è stata raccontata nell’ultimo numero di Scientific American ed è una lettura gradevole e affascinante come poche. Non perdetela!
Molto bello in particolare il racconto di come sia stata scattata la famosa fotografia “Pale Blue Dot” (un puntino blu pallido) del 14 febbraio 1990, che ha catturato l’immagine della Terra immediatamente prima dello spegnimento del sistema fotografico di Voyager 1.
– La famosa immagine “Pale Blue Dot” (un puntino blu pallido) catturata dalla sonda Voyager 1 il 14 febbraio 1990, nella versione aggiornata del 2020.
Una volta arrivati oltre Nettuno c’era ben poco di significativo da fotografare ed era molto più utile spegnere questo sottosistema per risparmiare energia. Ma gli scienziati della NASA vollero immortalare in quell’ultimo scatto l’aspetto del nostro pianeta visto dai confini del sistema solare. La nostra boria di essere al centro dell’universo diventa ben poco quando ci rendiamo conto di essere invece meno di un granello di sabbia nell’immensità che ci circonda.
Una piccola nota tecnica: l’immagine mostrata nella figura qui sopra è una versione recente (realizzata nel 2020, in corrispondenza del 30esimo anniversario della fotografia originale), elaborata utilizzando le più moderne tecniche di elaborazione delle immagini, senza però alterare lo spirito dell’immagine originale.
Due parole infine sul software che gira sul computer con appena 69 kilobyte a cui accennavo all’inizio. Computer come questo non devono, anzi non possono, avere dei bug, perché il più piccolo errore software potrebbe mandare a ramengo una missione costata centinaia di milioni di dollari.
E infatti i bug non ci sono, e i pochi che si presentano comunque possono in genere essere corretti da remoto tramite delle backdoor lasciate appositamente aperte dagli sviluppatori. Tutto ciò però ha un costo enorme, in termini di programmatori dedicati al progetto, di tempo speso nello sviluppo e soprattutto di funzioni implementate nel software, che deve limitarsi a fare lo stretto necessario e niente di più.
Quindi niente interfacce grafiche (orrore!), niente sistemi operativi adatti a pilotare tutto il pilotabile, ma solo ed esclusivamente lo stretto indispensabile alla buona riuscita della missione.
C’è chi oggi pretende di punire o sanzionare gli errori software, utilizzando magari il solito Garante tuttofare per la protezione dei dati personali. Peccato che costui dimentichi (o non sappia) che i bug ci sono perché i sistemi attuali sono intrinsecamente troppo complessi per essere del tutto esenti da errori.
Le missioni spaziali ci insegnano che si può raggiungere la perfezione o quasi, al costo di farci pagare il computer o lo smartphone almeno 10 se non 100 volte di più, oltre che costringerci ad usare modelli con funzioni ridotte all’osso, altro che i lockscreen con i widget animati e facezie varie. È davvero quello che vogliamo?
Oppure possiamo tenere i piedi per terra (letteralmente!) ed accettare il fatto che se stiamo viaggiando nel bel mezzo del sistema solare è fondamentale non perdersi, ma se ci perdiamo in centro perché Maps fa i capricci… insomma, non è poi quella gran cosa.