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Da melabit a melabit: andare sul cloud

Sabino Maggi Sabino Maggi Segui 24-Jun-2019 · 4 minuti di lettura
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Fonte: Daniel Falcão su Unsplash.

Il cloud computing è ovunque e ci sono decine di servizi diversi che ci permettono di usare un computer virtuale situato da qualche parte nel mondo come se fosse il computer fisico che abbiamo sulla scrivania. In questo campo i grossi calibri sono Amazon AWS, Google Cloud, Microsoft Azure, Red Hat OpenShift (in rigoroso ordine alfabetico), ma ci sono anche i servizi offerti da fornitori di servizi di hosting come SiteGround, DreamHost o Netsons oppure da provider più orientati al mondo degli sviluppatori come Digital Ocean, Codenvy, Heroku, UpCloud.

Descrivere tutto quello che fanno questi servizi è impossibile, le opzioni e le configurazioni sono tante e tanto diverse che cercare di orientarsi fra le varie possibilità fa letteralmente girare la testa (provate a districarvi nel sito di Amazon AWS e poi ditemi). Ma rimanendo a quello che ci interessa qui, tutti questi servizi mettono a disposizione un computer virtuale ospitato sull’onnipresente cloud dove possiamo installare un sistema operativo (generalmente Linux) e tutte le applicazioni necessarie per realizzare il nostro sito web.

Anche in questo caso valgono considerazioni analoghe a quelle fatte una settimana fa per il Raspberry Pi, con l’ovvia differenza che ora non dobbiamo preoccuparci degli aspetti legati all’hardware, visto che la macchina fisica e l’indirizzo IP sono forniti dal fornitore di servizi di cloud computing (in realtà la nostra macchina fisica non esiste nemmeno, il nostro computer virtuale sul cloud è solo un contenitore Docker ospitato insieme a mille altri su un server di un qualche datacenter).1 A noi rimarranno comunque alcuni oneri importanti, come ad esempio quello di aggiornare e mantenere in sicurezza il sistema operativo e i pacchetti software che utilizziamo per realizzare il sito web.

Ma oltre a non doverci preoccupare di gestire l’hardware, il vero vantaggio di ospitare il sito su un servizio di cloud computing è quello di essere liberi di utilizzare per il sito il software che preferiamo, senza i vincoli stabiliti dai normali fornitori di servizio di hosting che normalmente danno la possibilità di scegliere solo fra un certo numero di applicazioni predefinite, selezionate fra quelle più popolari.

Se per il nostro sito vogliamo usare un CMS come Wordpress, Drupal, CMS Made Simple o Kirby non fa nessuna differenza, anzi un servizio di hosting tradizionale può essere preferibile perché ci permette di concentrarci sui contenuti, lasciando tutta la gestione del sito al fornitore del servizio di hosting. Ma se vogliamo utilizzare dei CMS meno diffusi come Ghost o Postleaf oppure dei generatori di siti statici come Jekyll, Hugo, Grav o Hexo,2 la soluzione cloud ci offre una flessibilità impareggiabile, nettamente maggiore di quella offerta da un normale servizio di hosting.

Tutto questo però ha un prezzo da pagare. Un servizio di hosting decente può costare anche solo qualche decina di euro all’anno, per usufruire di un computer (anche se solo virtuale) nel cloud la cifra da sborsare è nettamente maggiore, dell’ordine di almeno 20-30 euro al mese (con variazioni enormi fra le offerte dei diversi provider).

Prima di scegliere fra hosting e cloud bisognerà quindi valutare realisticamente quello che vogliamo fare con il sito web (un blog personale è ben diverso da un sito di commercio elettronico), tenendo bene in conto dell’impegno richiesto per mantenerlo in forma e delle competenze tecniche necessarie per gestire un servizio mediamente complesso come questo. Trascurare quest’ultimo punto in particolare potrebbe significare dover spendere cifre nettamente maggiori per rimediare ai problemi di configurazione, o peggio di sicurezza, che potrebbero danneggiare gravemente non solo il sito ma anche la nostra immagine. In questo campo i costi non sono solo quelli che si vedono sul cartellino del prezzo.

Da melabit a melabit, la serie completa degli articoli

  1. Il nostro unico problema sarà quello di associare l’indirizzo IP al nome di dominio (ma in genere lo stesso fornitore del nome di dominio ci mette a disposizione gli strumenti per farlo da soli). 

  2. Dei primi tre ne ho scritto parecchio anche qui, chi vuole può leggere i vecchi articoli su Grav, Hugo e Jekyll

Sabino Maggi
Pubblicato da Sabino Maggi Segui
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