Alla fine degli anni ‘80 ho vissuto a lungo in Germania. Bellissima la città, Brauschweig, quasi al confine con l’ex Germania Est e a pochi chilometri da una città incantevole come Hannover. Bellissimo l’istituto dove lavoravo, il Physikalisch-Technische Bundesanstalt (PTB per quelli che non amano gli scioglilingua), immerso nel verde, pieno di animali selvatici liberi di scorazzare nel bosco, tanto grande che per andare da un capo all’altro tanti usavano la bici o l’auto. Organizzazione perfetta, i tedeschi quando ci si mettono sono dei maestri.
Ogni mese il gruppo di una ventina di tecnici e ricercatori di cui facevo parte, e come il nostro tutte le altre decine e decine di gruppi del PTB (in totale c’erano circa 1500-2000 dipendenti), riceveva un tabulato spesso diversi centimetri (volevo scrivere “spesso come un elenco del telefono”, ma per i più giovani è un paragone incomprensibile) con l’elenco di tutte le telefonate fatte da ciascun di noi, suddivise fra telefonate private e telefonate di lavoro.
Già allora il centralino del PTB era intelligente e tutte le telefonate erano codificate. Volevo fare una telefonata urbana privata? Mi bastava premettere un “1” al numero di telefono. Per una telefonata urbana di lavoro usavo un “2”, per le interurbane private o di lavoro i codici erano rispettivamente “3” e “4”. Anche le rare telefonate internazionali avevano i loro codici, diciamo “5” e “6”, ed essendo le più costose erano anche quelle più sotto osservazione.
In questo modo il costo delle telefonate private veniva addebitato automaticamente al numero da cui erano partite, mentre per quelle di lavoro la procedura era leggermente più complicata.
Le telefonate che costavano meno di alcuni marchi (diciamo qualche euro di oggi) non le guardavano nemmeno, mentre tutte quelle che superavano una certa soglia venivano marcate con un pennarello giallo (per i casi “normali”) o rosso (per quelle più costose) e chi le aveva effettuate doveva giustificare il motivo per cui le aveva fatte. Niente di complicato, bastava scrivere sul tabulato stesso il nome dell’azienda o del collega che era stato chiamato e perché e il gioco era fatto, si fidavano e non chiedevano altro. Ma dietro tutta questa fiducia c’era la consapevolezza che essere scoperti a dichiarare il falso avrebbe comportato una sanzione immediata e irrevocabile.
A me succedeva spesso di chiamare l’azienda di Monaco che aveva realizzato il sistema di deposizione di film sottili che stavo mettendo a punto,1 a volte stavo al telefono un’ora o più per cercare di sistemare qualcosa che non andava. Negli anni ‘80 le interurbane si pagavano al minuto e quelle fatte in orario di lavoro potevano costare due o tre volte di più di quelle serali, per cui queste telefonate costavano uno sproposito e venivano regolarmente segnate in rosso. Ma bastavano due righe di spiegazione ed erano contenti, non mi hanno mai chiesto altro.
Ogni tanto pensavo che in qualche ufficio del PTB c’era qualcuno che passava la giornata a scorrere tutti questi tabulati, a segnare le telefonate sotto osservazione e a leggere e valutare le nostre giustificazioni, e ogni volta cresceva la mia incredulità per questa organizzazione efficiente e rigorosa ma anche attenta a non creare troppi fastidi ai colleghi.
Tornato in Italia venni subito assunto dallo IEN di Torino (ora INRiM) per proseguire il lavoro fatto presso il PTB. Allo IEN le cose erano molto più ruspanti, al posto dei codici automatici c’erano dei foglietti azzurri dove dovevamo segnare qualunque telefonata fatta, una per ogni foglietto. I foglietti finivano nell’ufficio di una signora simpaticissima, peccato non ricordarne più il nome, che li accumulava uno sull’altro in pile vertiginose.
In teoria avrebbe dovuto leggere ogni foglietto, addebitare a chi le aveva fatte le telefonate private e chiedere i motivi di quelle di lavoro più costose, più o meno come succedeva al PTB.
In pratica la signora non faceva niente di tutto questo, aveva troppe altre cose da fare per occuparsi veramente dei foglietti del telefono. Una volta mi ha spiegato il perché e non faceva una piega. La maggior parte delle telefonate private erano urbane e brevissime, le classiche “butta la pasta che arrivo” ma, anche se costavano pochi spiccioli, per essere addebitate richiedevano la compilazione di due o tre moduli diversi, oltre che svariate firme e giri di documenti da un ufficio all’altro. Per recuperare 100 lire (5 centesimi di oggi) l’amministrazione ne avrebbe sprecate 50-100 mila (sempre lire) in termini di costo “macchina” dei vari impiegati amministrativi coinvolti. Aveva senso farlo? Naturalmente no, e la signora era così saggia da evitare questo spreco inutile per dedicarsi a pratiche più importanti.
Per le telefonate di lavoro, invece, considerava valido a prescindere quello che scriveva il collega, un po’ perché sapeva che eravamo quasi tutti onesti, un po’ perché sapeva altrettanto bene che cercare le poche telefonate false nella montagna di quelle vere sarebbe venuto a costare ben di più delle cifre recuperate. E quando anche ci fosse riuscita, sarebbe iniziata la valanga tipicamente italica di giustificazioni, non ricordo, ricorsi e controricorsi, che avrebbe reso vana ogni sua azione.
Ogni anno prima di Natale la signora prendeva la pila di foglietti e li buttava via senza nemmeno guardarli.
Quella della mia collega o del PTB era una lezione di buonsenso: non ha senso cercare di controllare tutto, è molto meglio concentrarsi solo sulle cose importanti lasciando perdere le minuzie. Altra lezione indimenticabile è che solo un sistema di sanzioni rigoroso ma equo può evitare veramente le frodi.
Invece prevale l’attitudine contraria, si sceglie di controllare e burocratizzare tutto, in particolare le sciocchezze da quattro soldi, in modo da non riuscire a non controllare niente in modo efficace, buttando pure a mare inutilmente delle vere montagne di soldi. E nei pochi casi in cui i controlli vanno a buon fine, ci sono troppe scappatoie che permettono ai farabutti di farla franca. Vedete voi se per cecità, ignavia o volontà nemmeno troppo nascosta.
-
Un sistema di sputtering in ultra alto vuoto, una roba da mezzo milione di euro di allora affidata ad un giovane appena laureato come me, che meriterebbe un racconto tutto suo. ↩