Qualche giorno fa Frix ricordava in un commento di aver partecipato a
un concorso in cui uno dei prof. ordinari della commissione (erano 2) aveva uno o due pubblicazioni più di me, ma meno prestigiose e nessuna di ricerca…
I concorsi sono una delle distorsioni maggiori del mondo dell’università e della ricerca in Italia. Potrei sbagliare, ma credo che in nessun paese sviluppato il reclutamento nel mondo della ricerca avvenga in questo modo.
In teoria il concorso dovrebbe assicurare parità di condizioni fra i vari candidati, permettendo di selezionare – in base a criteri di valutazione stringenti e predeterminati – quelli in possesso del curriculum scientifico migliore e in grado di superare una o più prove di esame.
Tutte balle. La pratica è ben diversa.
C’è innanzi tutto la questione commissari.
Come fa notare Frix, non è assolutamente inusuale trovare in un concorso commissari con titoli scientifici comparabili se non inferiori a quelli dei candidati [1]. O, cosa perfino più frequente, commissari del tutto incompetenti nel settore di ricerca del concorso stesso. Quali garanzie possono dare simili commissioni di poter scegliere realmente il candidato migliore? Con quali competenze possono valutare le prove, scritte o orali, dei diversi candidati?
In secondo luogo, i concorsi sono quasi sempre pilotati.
Intendiamoci, non sempre pilotare un concorso è un male, in particolare ai livelli iniziali.
Supponiamo di far partecipare ad un concorso un giovane ricercatore: ha fatto il dottorato, lavora con noi da tempo, sa il fatto suo ed è competente in quello di cui si occupa. Dovendo scegliere fra prendere lui o uno sconosciuto da formare da zero, magari anche disinteressato ai temi di ricerca che dovrebbe affrontare, cosa sarebbe preferibile fare? Credo che la risposta sia ovvia.
Si dirà che così si apre la porta agli imbrogli.
Già perché gli imbrogli non ci sono già, dietro lo schermo di valutazioni “oggettive” e formalmente inattacabili? Qualche giorno fa Sebastiano Messina su Repubblica ha raccontato la storia di Luigi Frati (purtroppo l’articolo originale non è disponibile online), rettore uscente della Sapienza di Roma, presso la quale ha fatto entrare prima la moglie, poi la figlia e infine il figlio. Dopo un regolare concorso, si intende. Dato il ruolo del personaggio, il suo è un caso particolarmente eclatante, ma putroppo l’imbroglio è più la regola che l’eccezione.
Come se ne esce? Basta fare come si fa all’estero, niente concorsi ma regole chiare e responsabilità totale ed oggettiva per gli errori. Senza se, senza ma, ricorsi, TAR e simili.
Totale libertà di assumere chiunque, in base al curriculum ovviamente ma senza vincoli formali stringenti (un curriculum non basta, ci sono altri fattori da considerare, come l’interesse o la capacità di lavorare con gli altri), ma anche obbligo di cacciare su due piedi chi non fa il suo lavoro con impegno e competenza. Se non si vuole che la scarsa produzione scientifica degli incompetenti abbia conseguenze dirette su tutti gli altri membri del gruppo, dal capo all’ultimo precario, in termini di riduzione dei fondi e della possibilità di partecipare a progetti ed attività.
Detto altrimenti, se non si vuole che le colpe di uno ricadano su tutti gli altri. Brutale ma efficace.
[1] Trovare in un concorso commissari con titoli scientifici comparabili ai propri era molto frequente venti-venticinque anni fa, quando le pubblicazioni contavano pochissimo per fare carriera. Quello che contava veramente era saper tessere i rapporti giusti, anzi una buona produzione scientifica era persino controproducente, dimostrava troppa indipendenza dal barone di turno. Io stesso a quei tempi, ancora giovane ricercatore, ho visto parecchi colleghi più anziani passare ai livelli superiori con meno di dieci pubblicazioni internazionali. Ma è tornato anche oggi è tornato ad essere frequente, a causa dei vari blocchi di assunzioni e passaggi ai livelli superiori, che impediscono a tanta gente valida (ce n’è comunque) di progredire nella carriera.